I Choose a Legend: George Best.

1 Dicembre, 2014

Il Jim Morrison, il Charles Bukowski del Pallone: George Best

«I once said Gazza’s IQ was less than his shirt number and he asked me: “What’s an IQ?”»


Ci sono tantissime frasi dette da Best divenute celebri, e forse, la più famosa, quella che viene ripetuta come una moda, che può essere vista anche come la sua filosofia di vita , è: «Ho speso molti soldi in donne, alcol e auto sportive, il resto l’ho sperperato».  Sintesi dell’esistenza trasgressiva ed esagerata di una leggenda.
C’è anche un’altra frase (oltre quella menzionata all’inizio) che mette in luce un aspetto del nordirlandese: «Se fossi stato anche bello, nessuno avrebbe mai saputo chi è Pelè». Tanto per intenderci: Best non le mandava di certo a dire, può essere considerato tutto, tranne che un diplomatico.


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Chiunque si è avvicinato al mondo del calcio ha sentito parlare, anche incidentalmente, di George Best. Nel Regno Unito, Bestie (soprannome datogli dai tifosi del Manchester United) è considerato alla stregua dei Beatles, anzi, utilizzando un termine cinematografico, è “l’eletto”, uno che ha oltrepassato  i confini del calcio per poi imporsi nell’immaginario collettivo.
Per molti, giovani e non, Best rappresenta la trasgressione, un dannato,  perso in un mix di calcio, donne, soldi e alcool, l’eccesso… è il MITO.


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A scoprire il Belfast boy fu Bob Bishop (osservatore dello United) che assistette alla partita della Cregagh Boys Club and Lisnasharragh Intermediate School (squadra in cui militava Best). L’irlandese segna due goal, fa ammattire tutta la difesa avversaria, e Bishop è “costretto” a dire a Matt Busby ( il big boss dello United): «Ho trovato un genio».

Debbutta con la maglia del Manchester United alla tarda età di 17 anni (contro il West Bromwich Albion); vince due Campionati; una Coppa dei Campioni; e nel 1968 vince il Pallone d’oro all’età di 22 anni.


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Best ha un cognome da predestinato, infatti diviene rappresentante della sua generazione, quella del rivoluzionario ’68, e il massimo esponente di un modo di essere anticonformista.
Anticonformismo che lo si vede anche nel suo modo di giocare, che lo porta a divenire (al di là dei suoi  atteggiamenti fuori dal campo) idolo indiscusso delle folle, il geniale intrattenitore del bel gioco.
El Beatle voleva far divertire, era cosciente di avere un dono che voleva/doveva condividere con chi aveva la sua stessa passione. Lo fece. Geordie, giocava per se stesso, per i suoi compagni, ma soprattutto per la gente, quella gente che avevan la sua stessa passione.
Di sicuro non è un uomo di quelli da prendere come un esempio, anzi, tutt’altro. Ma  se la gente l’ha capito, difeso, è per il semplice fatto che , quella gente, con la passione per il calcio, capiva il suo eroe, nei suoi giorni di gloria ma soprattutto nei suoi momenti bui.


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In una delle sue ultime interviste, quando gli fu ricordato che lui aveva fatto la storia dello sport più famoso del mondo, rispondeva così: «Boh, la storia… Io ho sempre giocato per piacere, per divertire me stesso e i miei fan. Quando ho iniziato io, l’Inghilterra era fantastica. Si cominciavano a portare i capelli lunghi, la musica era favolosa, la moda era meravigliosa e anche il calcio britannico non era male. Vincevamo le coppe europee e ogni anno una squadra diversa vinceva il campionato. Oggi invece ci sono solo Manchester United, Chelsea e Arsenal. Che noia… Non si giocava con gli orecchini, i capelli colorati, i tatuaggi sui polpacci. Io, Di Stefano, Pelè, i miei amici dello United facevamo divertire la gente. Allora il calcio era divertimento… Penso che si dovrebbe sempre scendere in campo sorridendo ed è quello che facevo io. Oggi invece è tutto troppo maledettamente serio, perché ci sono troppi soldi, perché se perdi è la fine del mondo.
E ti dico che se tornassi in campo oggi, rifarei tutto allo stesso modo, giocherei per far divertire il pubblico, e basta».

Voglio concludere riportando le parole scritte da un giornalista britannico, dopo la sua morte: «Ci sono due modi per ricordare Best: il primo vi causerà rabbia, rimorso, dolore per non aver visto questo immenso giocatore esprimere tutto il suo formidabile ed inarrivabile talento. La seconda vi porterà gioia, un’incredibile stato di estasi e la privilegiata opportunità di aver potuto ammirare uno dei più grandi artisti sportivi mai apparsi sul pianeta».

Lascio a voi la conclusione da trarre su un uomo che ha lasciato la sua impronta, la sua personalità, il suo “dono” in un mondo (almeno quello italiano) che, per quanto mi riguarda, vive in uno stato di mediocrità imbarazzante.


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