PASS THE POPCORN / CHELSEA ON THE ROCKS (2009)

22 Dicembre, 2014

 I don’t mean to suggest that I loved you the best, I can’t keep track of each fallen robin.
I remember you well in the Chelsea Hotel, that’s all, I don’t even think of you that often.

Leonard Cohen, Chelsea Hotel #2


Here’s room 115 filled with S & M queens, magic marker row you wonder just high they go. 

Here they come now, see them run now, here they come now, Chelsea girls.

Nico, Chelsea girls


Esistono luoghi nel mondo che oltre ad avere una storia narrano storie.

Prendete il Chelsea Hotel al 222 West 23rd Street, Manhattan, New York. Se non sapete di cosa parlo, avete bisogno di un buon ripasso di storia del XX secolo: almeno a partire da inizio ‘900, il Chelsea diventa il collettore della intellettualità e della creatività mondiale in trasferta a NYC: un vortice di energia artistica mulina ferocemente nelle sue fondamenta, alimentato dalle vite randagie dei suoi abitanti. Da Dylan Thomas a Jack Kerouac – che qui scrisse On the road in un pugno di notti, strafatto di benzedrina – da Arthur C. Clarke – che in queste stanze ha messo giù 2001: Odissea nello Spazio –, a Thomas Wolfe, Bob Dylan, Leonard Cohen, Janis Joplin, Andy Warhol e la sua Factory, Frida Kahlo e Robert Crumb, Kubrick e Milos Forman; tutti i più grandi, insomma, in una incessante cavalcata avanguardista lunga cento anni, hanno calcato e pestato quei pavimenti e quelle scale. Così, sono le pareti stesse a trasudare racconti: e dicono di amori, scopate, suicidi e omicidi: come la morte di Nancy Spungen, attribuita al suo compagno Sid Vicious; o quella di Janis Joplin, alla cui memoria il suo amante al Chelsea, Leonard Cohen, dedicherà una struggente ballata; o ancora, tutte le morti accidentali o cercate: come quelle degli anonimi avventori che c’entravano solo per ammazzarsi, credendo così di poter avere i quindici minuti di popolarità promessi.

Quei muri, quei volti e alcune delle infinite storie che lo animano sono raccolte da un testimone di eccezione, Abel Ferrara, anche lui inquilino, in un bel documentario. Con l’usuale abilità nel mescolare codici, registri e stili di narrazione, Ferrara fa parlare i muri, le pareti delle stanze, le scale, le finestre (e perfino qualche fantasma) del Chelsea attraverso i visi di alcuni suoi storici abitanti: senza una didascalia a dirci chi siano, perché a contribuire alla creazione del mito del Chelsea non è stato tanto l’apporto delle singole personalità, ma una sostanziale visione d’insieme della vita prima che della pratica artistica; un’idea di tutela di una collettività chiassosa ma fertile, che ha contribuito, in una ipotetica cronologia della carriera artistica dei suoi inquilini, a caratterizzare un periodo come “Chelsea”. Così, i segni sui visi raccontano storie più delle loro sconnesse parole; e ci troviamo immersi in un’atmosfera unica e irripetibile.

Per la cronaca: l’hotel oggi è chiuso per ristrutturazione. Riaprirà nel 2015: diverrà un condominio di lusso, con un costoso e glamour bar sul tetto. Così la moglie del CEO di qualche grande società potrà vantarsi di dormire nella stanza in cui Kerouac ha scritto On the road. Ciascuno vive il tempo che ha contribuito a creare: ma se volete capire com’era stare al Chelsea Hotel, buttate un occhio a Chelsea on the rocks.


 

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