PASS THE POPCORN // GREETINGS FROM TIM BUCKLEY (2013)
22 Gennaio, 2015INTERNO GIORNO.
Un giovanotto magro e pallido, dalla camminata dinoccolata, entra nella chiesa di St. Anne a Brooklyn, NYC. L’anno è il 1991. Strumenti e amplificatori riempono lo spazio tra le panche e sull’altare; gente indaffarata e, in un angolo, un gruppo di musicisti – tra cui spicca Richard Hell dei Television – chiacchierano animatamente. Si sta preparando un concerto tributo per un folk-singer psichedelico di culto degli anni ’60\’70, Tim Buckley. Il giovanotto è suo figlio Jeff, Jeff Buckley: e questo è il racconto – romanzato – della sua prima esibizione; del debutto di una leggenda sulle orme di un’altra leggenda. Di un figlio all’inseguimento di un padre mai conosciuto; e di un artista che fa i conti con l’eredità d’un altro artista.
Bisogna che lo ammetta, però: se non fossi stato un grande fan dei due Buckley, forse non l’avrei nemmeno apprezzato più di tanto, questo film: ha più di un problema, bisogna dirlo. Comunque, è stato selezionato per il Tribeca Film Festival di New York: per cui, qualcosa di buono deve pur esserci. Ecco, allora, due ragioni a favore, due contro – e le consuete Hot Scenes – nella nostra Top 5 settimanale.
PRO
1. La musica. In realtà questo potrebbe rappresentare anche un “contro”: il film è pieno zeppo di classici di Buckley padre (dunque Tim, non Jeff: non iniziate ad andarmi in confusione, sennò diventa veramente un macello). Per me che ne sono un fan è un bel punto a favore: con una colonna sonora del genere potrei sorbirmi pure l’opera omnia dei Vanzina (beh, gente, non era una sfida, ma una semplice ipotesi di scuola!)
2. La costruzione narrativa. Sebbene non sia particolarmente innovativa, la narrazione incrociata delle vicende sentimentali, delle incertezze artistiche, delle debolezze umane dei due Buckley riesce a creare una struttura capace di movimentare una trama di per sé abbastanza inconsistente.
CONTRO
3. Gli attori e la regia. Io l’ho capito che, per girare un film del genere, serva uno che assomigli almeno vagamente a Jeff Buckley; e che se il biopic è musicale, l’attore deve almeno riuscire a fare una scala con la voce. Arrivo anche a comprendere che l’aver preso parte ad una serie TV di successo – come Gossip Girl – faccia curriculum e aiuti non poco a ottenere un buon ruolo, al giorno d’oggi. Però, sarò io vecchia guardia, trovo che l’attore protagonista di un film debba almeno possedere i rudimenti della recitazione. Peccato. Va un po’ meglio con l’interprete di Tim Buckley: o forse è solo che appare di meno e parla pure poco. Stesso discorso per la regia: troppo televisiva, troppo didascalica, troppo tardo-adolescenziale.
4. L’inconsistenza della storia. Ok, è vero che il racconto di un secondo della vita di un uomo può essere dilatato fino a farlo durare giorni – vi dicono niente i nomi Malick o Tarkovsky? -; il fatto è che qui su esagera: si vuole dare consistenza a un soggetto debole con dosi massicce di introspezione. Insomma, non basta avere un protagonista che di mestiere fa l’aspirante musicista, sbattergli la camera in faccia, catturarne lo sguardo corrucciato, e far girare in sottofondo una struggente canzone di Tim Buckley per evidenziare la tendenza alla sofferenza esistenziale dell’essere umano, non vi pare?
5. Hot Scenes. Richard Hell che fa ascoltare a Jeff il riff di “Grace“; l’improvvisazione al negozio di dischi, l’esecuzione di “Once I was“; la scena finale all’aeroporto che ricorda il video della canzone – pubblicata postuma – “Everybody here wants you“.
Insomma, gente, non un capolavoro questa attesissima pellicola su Jeff Buckley. Ma tanto se siete dei fan come me, già sarete alle prese con lo streaming, invece che perdere tempo a leggere le mie parole.
Buona visione.
(La scheda del film a cura di ROTTEN TOMATOES – Click Here – )
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