SPECIALE PINK FLOYD // WISH YOU WERE HERE – 40th ANNIVERSARY –
12 Settembre, 2015Giusti giusti 40. E non sentirli. No, ragazzi, non celebriamo una vicina di casa particolarmente avvenente e appetibile: ma uno dei dischi capolavoro degli anni ’70, di una delle band più celebrate di tutti i tempi, i Pink Floyd. Il 12 settembre di 40 anni fa usciva in tutti i negozi di dischi la prima edizione di Wish you were here della premiata ditta Gilmour/Waters/Mason/Wright. Dopo il successo planetario di Dark side of the mooon (1973), la creatività della band sembrava essersi inaridita. I litigi tra le due personalità più forti, Waters e Gilmour, erano all’ordine del giorno. L’album stentava a prendere una forma compiuta. Nello Studio 3 di Abbey Road, l’aria era pesante: la band non trovava una direzione precisa e sembrava sul punto di esplodere. È a quel punto che un accordo di chitarra di Gilmour risveglia qualcosa nella mente di Waters: nasce Shine on you crazy diamond, un brano lunghissimo dedicato al diamante pazzo della band, l’oscuro e perduto signore della psichedelia, Syd Barret.
“Remember when you were young, you shone like the sun.
Shine on you crazy diamond.
Now there’s a look in your eyes, like black holes in the sky.
Shine on you crazy diamond.”
Il processo creativo passa saldamente nelle mani di Waters: nonostante i dissapori creativi con David Gilmour, per nulla convinto della sua guida e della direzione verso cui il nuovo disco sembrava muoversi. Nonostante questo, WYWH prendeva sempre più forma: un album che esprime il sentimento dell’assenza, ma anche una riflessione sul disagio dell’artista, stretto tra la propria volontà creativa e le regole ferree del business musicale. «Dovevamo capire se eravamo degli uomini d’affari o degli artisti», ricorda Gilmour: la tensione tra queste due polarità può diventare letale, spazzare via l’intero impero di note e melodie, desertificare la creatività. Proprio come era accaduto a Syd Barrett, l’anima artistica pura della band, per nulla incline a percorsi commerciali: allontanato nel 1968, perché ingestibile, preda dei deliri delle droghe; ma anche contrario all’inseguimento del successo ad ogni costo. Così l’album diventa anche un modo per espiare quel peccato originale: «Noi pensavamo che l’industria discografica avesse rovinato Syd» (Gilmour); «Syd è stato bruciato non solo dall’industria, ma anche da noi quando decidemmo di andare a Top of the Pops contrariamente a quello che voleva lui» (Mason).
Il finale di questa storia ha un sapore dickensiano. Il 5 giugno, uno strano individuo, grasso, stretto in un impermeabile, con la testa e le sopracciglia rasate, fa visita ai quattro negli studi di Abbey Road. È un irriconoscibile Syd Barret. Roger Waters e David Gilmour scoppiano a piangere. Il fantasma del loro passato si è materializzato, come a voler loro ricordare il prezzo del talento, del genio del successo. È il fuori programma ideale per un disco complesso, oscuro, bellissimo, che venderà circa 20 milioni di copie. L’ultimo lavoro, probabilmente, nel quale i quattro condivideranno tutto, nel bene e nel male.
PINK FLOYD: THE MAKING OF WISH YOU WERE HERE (2005)
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