Track Of The Day // Lazarus

17 Gennaio, 2016

Cosa faresti se sapessi che stai per morire?
Nel Luglio del 2014 a David Robert Jones fu diagnosticato un cancro e questa domanda lo avrà tormentato a lungo. In pochissimi sapevano della malattia. David aveva richiesto a familiari, medici e quei pochi amici che ne erano a conoscenza di non far trapelare alcunché e nei suoi ultimi 18 mesi di vita è riuscito ad eclissare persino sei infarti.
Quando Robert Jones ha iniziato a farsi domande su come impiegare il tempo rimasto una delle risposte che si è dato è stata sicuramente la più ardua, la più coraggiosa, la più generosa.
Non mi sarei aspetto nulla di diverso da un Capricorno, per quanto ne sappia di astri. Robert Jones ha deciso di tenere in vita il più possibile ed il meglio possibile il suo alter-ego, quell’altro se stesso che conteneva tutti i suoi personaggi, David Bowie, che la storia non l’hai mai subita, l’ha solo fatta.


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Deve essere stata una decisione davvero difficile e forse anche un po’ azzardata. Quando un artista del calibro di Bowie decide di dar vita ad un album si mette in moto un meccanismo mastodontico che coinvolge miriadi di persone e sei non sei in grado di tenergli testa ti fa a pezzi. E allora perché farlo? Perché rischiare che lo stress aggravi una condizione di per sé già precaria? La risposta è solo una: l’amore, l’amore per l’arte.
Blackstar è stato concepito come l’ultimo dono di Bowie all’intera umanità. Quest’album verrà ricordato come il suo testamento, l’auto-epitaffio, come una riflessione di David sulla sua morte. Ma non si tratta di un revival, con oltre cinquant’anni di carriera alle spalle e decine di album che hanno segnato la storia della musica David non aveva certo bisogno di un feticcio per poter essere commemorato.
I fan hanno avuto modo e tempo di scegliere un totem sotto il quale venerarlo. Blackstar è invece l’ennesimo slancio di un’artista che dei sicuri lidi dove attraccare e godersi la vista non sapeva che farsene. Il disco era molto atteso, la tempistica fatalmente puntuale ha fatto il resto. David però non aveva “programmato” la sua morte come hanno sostenuto gli sciacalli, queste voci sono state smentite dal suo entourage che ha dichiarato che Bowie stava progettando di incidere ancora un album, nel quale magari c’avrebbe raccontato della sua fuga dalla barca di Caronte.
David sapeva solo che sarebbe potuto morire da un giorno all’altro.


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Ha vissuto la sua vita come un’opera d’arte e questa sua ultima creazione forse rappresenta la convergenza più parallela tra Robert Jones e David Bowie.
Blackstar non è un disco di facile ascolto, non è un disco che può essere canticchiato distrattamente in macchina, i sette brani sono complessi ed ogni volta si scopre un nuovo suono, un’altra chiave di lettura.
L’album è stato co-prodotto da Bowie e Tony Visconti. La scelta di Visconti non è stata casuale e sicuramente ci dice di più su come David aveva concepito il suo ultimo lavoro in studio. Tony Visconti è stato uno degli artefici della trilogia berlinese (ma non solo), è stato il produttore che ha assistito Bowie nel suo periodo più buio, colui che ha fornito a David “l’armonizzatore che fotte la struttura del tempo”, colui che insieme a Brian Eno ha aperto all’algido Duca Bianco le porte della percezione elettronica, colui che ha ispirato una delle strofe più belle di Heroes, uno dei pochi che Bowie ha voluto accanto nel suo periodo esistenzialista , il periodo dell’arte per l’arte.
Blackstar sicuramente si rifà concettualmente a quel periodo, ma non è un greatest hits sotto mentite spoglie, è l’originale opera di un artista che prima di tutto era un intellettuale, un avanguardista, e forse anche un futurista. Il disco naviga nuovi mari, può ricordare le sperimentazioni di Scott Walker che a sua volta deve tantissimo a “Low” e “Heroes”, ma sicuramente fungerà da spunto alla musica che verrà.


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Lazarus, terzo brano e secondo singolo estratto da Blackstar, è la Track Of The Day. E’ forse il brano più facile del disco, quello in cui si sperimenta meno, ma è certamente il più intimo, quello in cui David rivela la sua sorte al mondo. La voce è sofferta, l’incedere dark, è la preghiera di un uomo sul letto di morte. La prima frase è tristemente profetica e non lascia alcuna spazio alla vita terrena “Look up here, I’m heaven”. ll testo prosegue con i versi più disperati del brano “I’ve got scars that can’t be seen, I’ve got drama, can’t be stolen” e si chiude con la consapevolezza che per la prima volta sta confessando al mondo la sua sorte “everyboby knows me now”.
Nella parte centrale del singolo ci sono riferimenti al suo passato, viene citata New York, la fama, gli eccessi. C’è lo sconforto, la coscienza che non potrà più riviere quei momenti, è rassegnato alla condanna a morte che la malattia ha emesso. Malgrado la fine imminente David però ha la certezza che ovunque vada sarà sempre libero “you know, I’ll be free” e che non si tratterà della fine ma di una rinascita “just like that bluebird”.

Ciao David.


 


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